Procedendo con ordine, è accaduto che il 9 maggio scorso il Ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva disposto che prefetture, amministrazioni locali e forze di polizia eseguissero controlli ai punti vendita di cannabis, sia fisici che automatici, sui territori di propria pertinenza e che, entro il 30 giugno inviassero una relazione al Ministero che illustrasse lo stato dei fatti. Delegando di fatto la vigilanza alle autorità locali, già in questa prima fase, i controlli sulla legalità dei prodotti venduti aveva portato a maxi multe e maxi sequestri.
In questo clima e prima ancora della scadenza del 30 giugno, a far precipitare la situazione, è intervenuta la sentenza del 30 maggio della Corte Suprema di Cassazione che, in maniera poco chiara e, ancora una volta lasciando libera interpretazione alle autorità locali, ha stabilito lo stop alla vendita della cannabis light e di tutti i prodotti basati sulle infiorescenze. La sentenza recita:
“La commercializzazione della cannabis sativa e, in particolare, di foglie, infiorescenze, olio, resina ottenuti dalla coltivazione […] non rientra nel campo di applicazione della legge n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nel Catalogo Comune delle Specie di piante agricole […] e che elenca tassativamente i derivati della predetta coltivazione che possono essere commercializzati“.
In seguito alla sentenza, sono partiti altri controlli a tappeto con conseguenti chiusure, multe e sequestri di merce, una situazione che ha impaurito i commercianti, molti dei quali hanno deciso autonomamente e in via cautelativa di abbassare le saracinesche e disattivare i distributori automatici.
Secondo la sentenza, quindi, la legge n. 242/2016 stabilirebbe che tali prodotti, anche se contegono un THC inferiore allo 0,5%, non possono essere venduti ma, tutt’al più, essere detenuti per uso personale. Per cui “le condotte di cessione, di vendita e in genere la commercializzazione al pubblico, a qualsiasi titolo, dei prodotti derivati dalla coltivazione della cannabis sativa salvo che tali prodotti siano in concreto privi di efficacia drogante”.
In buona sostanza, i rivenditori di cannabis light rischierebbero anche l’accusa di traffico di stupefacenti, com’è accaduto al titolare del Miracanapa di Torino.
Il clima che si è creato, la libera interpretazione delle singole Prefetture, l’attesa di una spiegazione da parte della Cassazione che motivi la legittimità della sentenza del 30 maggio, ha indotto i commercianti a chiudere l’attività autonomamente o a togliere dal commercio le infiorescenze e i suoi derivati, le cui vendite costituiscono il 70% del fatturato. Quello che era apparso come un nuovo business e che aveva dato un duro colpo al traffico di stupefacenti (si stima -14% di attività illegale pari a 100 milioni di euro di fatturato) è diventato in questi giorni un vero incubo.