14-12-2017 – Abbiamo più volte riportato casi di contrasti tra datori di lavoro, spesso dirigenti di luoghi della Pubblica Amministrazione, e dipendenti in merito al tempo concesso per la pausa, sia essa pausa pranzo o pausa caffè; alcuni minuti di stacco nel corso della giornata lavorativa necessari, per ricaricarsi e riprendere il ritmo con rinnovata energia. Sebbene riconosciuto come momento indispensabile anche ai fini della qualità del lavoro prestato, talvolta la pausa viene considerata una perdita di tempo, al punto che viene chiesto al dipendente di recuperarla allungando il regolare orario di lavoro.
Nella realtà, la pausa caffè non è una concessione dei datori di lavoro, bensì un diritto sancito dalla legge: l’art. 8 D.lgs 66/2003 asserisce la necessità di concedere ai dipendenti un momento di riposo durante il turno di lavoro. La legge va oltre e, sia che si tratti di pausa pranzo che di pausa caffè, stabilisce tempi specifici a seconda della categoria di lavoratori: i metalmeccanici, ad esempio, devono avere una pausa pranzo di almeno mezz’ora (art. 5 del Ccnl Metalmeccanici), mentre chi lavora al computer dovrebbe avere una pausa di 15 minuti ogni 2 ore per tutelare la salute degli occhi. (art. 175 D.lgs 81/2008).
In ogni caso, anche in assenza di una legge specifica, la pausa è un diritto di tutti coloro che lavorano per almeno 6 ore, al di là della categoria di appartenenza, e non può durare meno di 10 minuti. È, inoltre, un diritto escluso da ogni contrattazione e non può essere sostituito o scambiato neanche con un compenso economico.
Escludendo quei casi limite in cui i lavoratori approfittano della pausa per uscire dal luogo di lavoro e svolgere commissioni personali, allungando i tempi a piacimento (e da qui gli assenteisti e i fannulloni), prendere un caffè, magari al distributore automatico in modo da restare all’interno del luogo di lavoro, non può che avere riflessi positivi sul rendimento dei dipendenti e sulla reputazione dell’azienda.