Con la sentenza n. 222 dell’8 gennaio 2020, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a un anno e tre mesi di reclusione per il rappresentante legale di una cooperativa, accusato di frode fiscale. La condanna è stata confermata soprattutto a fronte del fatto che, nonostante le numerose fatture emesse e non pagate da clienti ai quali aveva prestato i suoi servizi, la cooperativa non aveva messo in atto alcuna azione per recuperare il credito vantato. Secondo i giudici della Cassazione questo
Lo stato dei fatti aveva evidenziato l’emissione di fatture che non avrebbero dovuto essere emesse se non successivamente al pagamento dei servizi prestati o a fronte dell’erogazione di acconti. Inoltre, sebbene le fatture non fossero state pagate, la cooperativa aveva continuato ad emetterne altre, senza tuttavia versare la corrispondente quota IVA, risultando così in debito con il Fisco. Il sollecito dei pagamenti sarebbe stato giustificato anche dalla necessità di incassare per poter soddisfare il proprio debito con l’erario.
Non essendosi verificato tutto ciò, i giudici hanno ritenuto che i servizi fatturati non fossero stati realmente prestati, palesandosi questo comportamento come la messa in piedi di una maxi frode fiscale, per la quale i giudici non hanno accettato alcuna argomentazione di difesa nei confronti del responsabile.
Questa condanna stabilisce un importante principio: se l’imprenditore non agisce in giudizio per riscuotere dai clienti gli importi delle fatture scadute, secondo i termini di scadenza indicati negli stessi documenti, si presume che le operazioni siano fittizie e che quindi si sia messa in piedi una frode fiscale.